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I Panama Papers e l’ennesimo attacco alla privacy

Sembra non possa passare settimana senza che esploda un nuovo caso mediatico che coinvolge, in un modo o nell’altro, la questione della privacy. E la causa – o la responsabilità, che dir si voglia – non può che individuarsi nelle nuove tecnologie che ormai da anni stanno sgretolando pezzo per pezzo la riservatezza delle persone. Riservatezza che, con la diffusione globale di Internet, ha raggiunto i suoi minimi storici.

L’ultimo scandalo è stato ribattezzato “Panama Papers” e si riferisce agli oltre 11 milioni di documenti legati allo studio legale Mossack Fonseca che, dal 2005 ad oggi, ha prestato assistenza nella costituzione di 210mila società offshore domiciliate a Panama. Più di 35 al giorno considerando anche le domeniche e i festivi. Il caso non può non appassionare chi segue con attenzione le questioni legate alla Rete, perché i risvolti della vicenda contribuiranno ad aggiungere un nuovo tassello alla regolamentazione – quasi esclusivamente giurisprudenziale – del Web: in assenza di un corpus di norme applicabili al digitale, con disposizioni tradizionali che sempre più faticano a registrare i cambiamenti portati dallo sviluppo della tecnologia, ogni avvenimento di questo tipo dà la possibilità a giornalisti, studiosi ed eventualmente magistrati che vengano coinvolti, di esprimersi su una nuova fattispecie concreta e valutarne a fondo i risvolti giuridici.

L’attenzione dell’opinione pubblica sugli scandali – soprattutto quelli finanziari – è sempre stata alta e lo è ancora di più al giorno d’oggi, forse perché Internet consente a chiunque di accedere ad atti e documenti in via diretta, senza intermediari e dunque senza avere l’impressione di avere tra le mani delle informazioni che sono state in qualche modo filtrate o manipolate dai media tradizionali, tacciati sempre più frequentemente di mancanza di terzietà. Da un lato gli utenti, sempre in attesa che i whistleblowers – gli “usignoli” che scelgono di rivelare al pubblico dati e notizie segrete – sfruttino la Rete per caricare online migliaia di file che in breve tempo avranno ottenuto una propagazione inarrestabile; dall’altro la magistratura, talvolta dubbiosa sull’utilizzabilità a fini probatori di queste notizie, ma conscia del fatto che le notizie di reato derivanti dalla diffusione online di informazioni riservate saranno sempre più frequenti (si pensi al caso della lista Falciani, sulla cui utilizzabilità in giudizio la Corte di Cassazione ha espresso parere positivo).

Tuttavia, l’impressione dell’utente di essere in possesso di veri e propri documenti originali non manipolati né intermediati in alcun modo dovrebbe essere messa seriamente in discussione. Non tanto per la veridicità dei singoli documenti, posto che difficilmente si può pensare di alterare decine di milioni di pagine prima di renderle pubbliche, quanto per le ragioni che hanno condotto alla diffusione di determinate informazioni segrete e per i fini sottesi ad una scelta di questo tipo.

Come rispondiamo alla vecchia domanda che dobbiamo porci “cui prodest?”? Si può semplicisticamente ritenere di essere di fronte a soggetti che – senza uno scopo preciso – scelgono di scatenare uno scandalo globale, o si può legittimamente dubitare di questa versione e – pur senza finire nella deriva del complottismo e della dietrologia – porsi il tema del perché oggi e perché su questo argomento. Non si giungerà, plausibilmente, ad alcuna risposta, ma si incanalerà il pensiero sul giusto binario, quello dell’autonomia di giudizio: Snowden, Assange, Vatican Leaks, sono solo alcuni dei più recenti casi di cui conosciamo i contenuti, pur ignorando le vere ragioni degli “usignoli”.

Trovandoci nell’impossibilità di gestire e valutare lo tsunami di informazioni che ci colpisce ogni giorno, dobbiamo porci nella condizione di essere in grado di selezionare quelle più rilevanti per analizzarne a fondo i profili principali. Operazione tutt’altro che semplice, ma di fondamentale rilevanza se vogliamo rimanere padroni del nostro pensiero e non diventare soggetti passivi delle trame di terzi che, grazie alla Rete, hanno la possibilità di influenzare la lettura che milioni di utenti danno degli eventi.

Nell’arco di pochi giorni, i nomi e i cognomi di centinaia di persone sono stati pubblicati su ogni giornale per il solo fatto di essere presenti tra i documenti dello studio Mossack Fonseca. Alcuni potrebbero certamente essere realmente legati a casi di evasione o frode fiscale, altri potrebbero esserne estranei ma difficilmente riusciranno a dimostrarlo ad un’opinione pubblica che – dopo aver etichettato un soggetto come “colpevole di qualcosa” – è raramente disposta a riconoscerne l’innocenza a posteriori.

La questione della privacy e dell’accertamento dei reati è spinosa perché coinvolge diversi profili di rilevanza costituzionale, già evidenziati su RepMag (pensiamo all’infinita diatriba tra Apple e FBI sull’accesso agli iPhone degli indagati di crimini gravi): fino a che punto si può violare la riservatezza di un soggetto per poterne accertare un’eventuale responsabilità di tipo penale? Fino al punto necessario e senza alcun limite, secondo i fautori della sicurezza nazionale (ma in questo caso, a differenza di quelli che coinvolgono il fenomeno del terrorismo, la sicurezza non c’entra); mentre la posizione ufficiale dello studio Mossack Fonseca è diametralmente opposta: “la privacy è un diritto umano sacro”, e dunque inviolabile. I personaggi emersi dalle carte dello scandalo sarebbero dunque vittime di una pesante violazione della riservatezza personale, prima ancora di essere potenziali colpevoli di qualche reato fiscale.

Il tema è stato recentemente affrontato sulle colonne de La Stampa da Massimo Russo, condirettore del quotidiano torinese, e Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,  che hanno avuto modo di esprimere gli stessi concetti, auspici e preoccupazioni, ma con approcci diversi. Se il primo ha evidenziato la necessità di lavorare con attenzione sulle rivelazioni dei whistleblowers che, “anche quando siano verificate, illuminano solo una parte della scena”, il giurista esperto di diritti fondamentali ha voluto porre l’accento sul fatto che nella società democratica “deve poter operare chi professionalmente o occasionalmente cerca di superare e forzare i segreti”, a patto che il giornalista d’inchiesta – vero tramite tra un’infinità di dati e la nostra conoscenza – mantenga sempre salda la sua correttezza professionale, condizione indispensabile “perché l’interesse pubblico alla informazione sia adeguatamente soddisfatto”.

Nella questione si fondono aspetti sociologici, etici e giuridici che difficilmente potranno essere sintetizzati in poche righe di dettato normativo. L’auspicio è che il lettore, prima di trarre conclusioni affrettate arroccandosi sulle proprie posizioni e prima ancora che il legislatore indichi la direzione da seguire, sfrutti i dati – in questo caso, qualche milione di pagine – per arricchire la propria conoscenza e formarsi un’opinione propria, e non per uniformarsi a quanto prescritto da chi, quei dati, ha deciso di diffonderli.

Riccardo Rossotto

Nicola Berardi

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