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Nomi patronimici e settore vitivinicolo

Dopo oltre dieci anni la Corte di Cassazione ha stabilito un punto fermo in una vertenza che ha visto contrapposte, con alterne vicende, due aziende vitivinicole del cuore delle Langhe.

Nel maggio 2004 Claudia Castella, titolare del marchio registrato CASTELLA, conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Torino, Renzo Castella, contestando l’asserito illecito di quest’ultimo conseguente all’utilizzo indebito del marchio di fatto CASTELLA nell’ambito della sua attività vitivinicola.

Renzo Castella si costituiva in giudizio e formulava domanda riconvenzionale chiedendo che fosse dichiarata la nullità del marchio CASTELLA per difetto di novità ed illiceità della registrazione.

Il Tribunale di Torino, con sentenza n. 131/2007 dell’11 gennaio 2007 condannava Renzo Castella alla refusione del pregiudizio subito da Claudia Castella inibendogli l’uso del patronimico CASTELLA come segno distintivo dei vini da esso commercializzati. Rigettava altresì la domanda riconvenzionale di nullità del marchio registrato CASTELLA. Osservava il Tribunale come “quand’anche” il marchio di Renzo Castella “dovesse essere inteso quale marchio complesso (composto non solo dal nome “Renzo Castella”, ma anche dal disegnino del paesaggio collinare) costituisce comunque contraffazione del marchio attoreo”, posto che “”il segno del convenuto lascia persistere il cuore-nucleo caratterizzante del marchio attoreo, cioè il nome patronimico Castella posto in posizione predominante rispetto agli altri elementi componenti l’etichetta”.

“L’aggiunta del prenome “Renzo”, “…considerata la vicinanza territoriale delle sedi delle due aziende in esame e inoltre la comune attività di produzione e commercializzazione vinicola delle medesime” veniva, dunque, giudicata dal Tribunale del tutto irrilevante.

Tale sentenza era radicalmente riformata dalla Corte di Appello di Torino che in data 19 aprile 2010, con sentenza n. 544, accoglieva l’impugnazione di Renzo Castella giudicando infondate le domande di contraffazione e di risarcimento dei danni proposte da Claudia Castella. Respingeva, invece, la richiesta riforma in punto nullità del marchio CASTELLA formulata da Renzo Castella.

La Corte affermava che la vicinanza delle due aziende, nella fattispecie di causa, “assume, invece, una valenza esattamente opposta” rispetto a quella valutata dal Giudice di primo grado “proprio perché sintomatica di un contesto produttivo in cui le omonimie sono frequenti e note”.

Nel presentare ricorso per Cassazione avverso la predetta sentenza Claudia Castella denunciava la violazione degli articoli 20 e 21 CPI, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ex articolo 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.

Claudia Castella contestava, in particolare, l’insufficienza dell’aggiunta del prenome Renzo e del profilo grafico delle colline langarole, facenti parte del marchio di fatto CASTELLA riprodotto sull’etichetta delle bottiglie, stante l’identità del cuore dei due marchi costituiti dall’identico patronimico.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 2191 del 4 febbraio 2016, pur richiamando l’orientamento giurisprudenziale risalente ed univoco, per cui il cuore dei marchi patronimici risiede effettivamente nel cognome, confermava la sentenza d’appello ritenendo che la motivazione sopra richiamata fosse esente da censure.

Osserva la Corte come Renzo Castella abbia “fatto uso del cognome “Castella” preceduto dal prenome “Renzo” ed accompagnato dal disegno – del tutto assente nel marchio registrato da Claudia Castella – delle colline langarole. Di più, la Corte territoriale ha affermato – citando ad esempi diversi casi verificatisi nella medesima area albese, alla quali appartengono entrambe le parti in causa – che nello specifico settore vitivinicolo è frequente la presenza di imprese, commercializzanti lo stesso prodotto, facenti capo a soggetti pressoché omonimi e che utilizzano il proprio nome come ditta o marchio. Sicchè avendo – nello specifico settore produttivo in questione – il patronimico una minore valenza distintiva, l’aggiunta del prenome al cognome, in specie se accompagnato da ulteriori elementi descrittivi (come nel caso concreto, le colline langarole), è sufficiente ad escludere la confondibilità dei segni distintivi delle diverse aziende”.

Ciò chiarito, la Corte rigettava anche il denunciato vizio di motivazione, avendo il Giudice d’appello esaminato tutti gli elementi acquisiti motivando le ragioni sottese alla formazione del proprio convincimento. Chiariva la Corte come la difformità di tali valutazioni rispetto a quelle rappresentate da parte ricorrente non poteva dar corso ad una revisione delle valutazioni e del convincimento del Giudice del gravame, essendo tale istanza, tesa all’ottenimento di una diversa pronuncia in fatto, estranea alla natura ed ai fini del Giudizio di Cassazione.

L’interesse della sentenza in questione scaturisce dalla diversa valutazione che i Giudicanti che si sono succeduti hanno dato ad elementi di fatto incontrovertibili, ma suscettibili di diversa valutazione.

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