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KEY CRIME: un futuro costituzionalmente ammissibile?

I Big Data, ossia una raccolta di dataset così grande e complessa da richiedere strumenti differenti da quelli tradizionali per la sua gestione, non rappresentano più una novità. Il loro esponenziale aumento di dimensione rende necessaria un’analisi sempre più complessa e dispendiosa al fine di estrarre il maggior numero di informazioni utili per varie finalità: monitorare l’andamento dei mercati, fare statistiche su ogni settore, scoprire le nuove tendenze della Rete o, anche, svolgere delle attività investigative attraverso l’analisi delle fonti aperte presenti sul web (OSINT) o, più specificamente, dei Social Media (SocMInt, -Social Media Intelligence) che rappresentano un’inesauribile fonte di informazioni utili per avviare un’indagine.

Infatti, se i Big Data non sono una novità, lo è certamente l’applicazione di tali dati in ambito giudiziario, in quanto, oltre ad offrire un quadro generale della distribuzione della criminalità all’interno della società, della tipologia di crimini commessi e delle aree geografiche più a rischio, oggi, attraverso l’utilizzo di sofisticati algoritmi che hanno ad oggetto dati riguardanti gli spostamenti e i comportamenti di determinati soggetti, è possibile individuare una profilazione di potenziali criminali assolutamente accurata e arrivare addirittura a prevedere, con una percentuale di probabilità che varia a seconda dei dati a disposizione, la possibile commissione di un crimine.

Questa nuova frontiera, definita “predictive policing”, dovrebbe aiutare a contrastare la criminalità e viene già utilizzata negli Stati Uniti per organizzare e rendere maggiormente efficienti gli sforzi della polizia soprattutto nelle aree geografiche a rischio.

Un esempio lo si trova nelle città di New York e di Houstoun in cui opera il Real Time Crime Center, grazie al quale è possibile avere una mappa topografica della città aggiornata in tempo reale con le notizie di reato provenienti dalle zone geografiche monitorate.  Nella medesima direzione procede anche la città di Los Angelese in California e quella di Richmond (Virginia), in cui viene utilizzato un particolare software chiamato Predictive Policing 2.0 che controlla in ogni momento la città offrendo un prospetto dell’evoluzione del fenomeno criminale.

E in Italia? La questura di Milano, ha recentemente sviluppato  Key crime, un software che consente di combinare tutte le informazioni utili a tracciare l’identikit del potenziale criminale.

Entrando più nel dettaglio sul funzionamento del software, esso è in grado di raccogliere tutti i dati che si riferiscono ad un determinato reato (ad esempio si è calcolato che per una rapina vengono inserite circa 20 mila informazioni) ed elaborarli tra loro. I dati in questione possono essere davvero svariati e alcuni all’apparenza non rilevanti: dalle caratteristiche fisiche al modus operandi, dall’abbigliamento al modo di impugnare l’arma, dal mezzo per darsi alla fuga alle caratteristiche comportamentali: il focus dell’incrocio dei dati riguarda principalmente l’autore, l’evento e le vittime.

Grazie a questo sistema è stato riscontrato una notevole diminuzione dei casi insoluti senza considerare tutti quei casi in cui è stato possibile svolgere attività di prevenzione del crimine.

Fino a qui nulla di particolarmente innovativo. Il software non svolge altro che un’attività di mining particolarmente efficace su dati presenti negli archivi della Polizia. Quale potrebbe essere lo scenario da un punto di vista legale, tuttavia, se lo stesso software incrociasse fonti open source e dati personali presenti nei social media per poter prevenire un reato? Il bagaglio informativo in possesso delle Forze di Polizia non rischierebbe di travalicare i principi fondamentali legati principalmente alla presunzione di innocenza su cui si basa il nostro ordinamento giuridico?

La risposta non è facile perché il bilanciamento di interessi tra esigenze di sicurezza e quelle di privacy e di diritti fondamentali dell’indagato devono necessariamente trovare un compromesso. Tuttavia, negli Stati Uniti ci si interroga già se questa tipologi a di software non violi il quarto emendamento che prevede la necessità di warrant firmato da un Magistrato prima di adottare misure investigative particolarmente invasive nei confronti di un cittadino. Infatti, la conseguenza diretta di un’analisi predittiva è che le forze dell’ordine possono, sulla base delle informazioni acquisite, decidere di svolgere appostamenti e controllare l’attività di soggetti “potenzialmente criminali”

In definitiva, lo scenario previsto nella nota pellicola “Minority Report” si sta avverando senza un reale interessamento del Legislatore che dovrebbe valutare attentamente i limiti costituzionali delle attività predittivo. Inoltre, pur considerando l’indubbia utilità di tali sistemi, va considerato che KeyCrime, esattamente come gli altri software, non sono ancora sistemi perfetti per l’individuazione o la previsione del potenziale colpevole di una condotta illecita. Per questa ragione è necessario valutare con molta attenzione se sia corretto equiparare le analisi svolte sulla base di algoritmi matematici alle attività investigative compiute da un magistrato dopo che è stato.

Infatti un recente articolo della Stanford Law Review scritto da Ian Kerr e Jessica Earle (Prediction, Preemption, Presumption, How Big Data Threatens Big Picture Privacy) dimostra come le analisi predittive, esattamente come le ricerche fatte un motore di ricerca che suggerisce le possibili soluzioni (si pensi al servizio Google Suggest), siano impostate sulla base di algoritmi che hanno l’obiettivo di fornire il risultato che l’investigatore vorrebbe trovare. Se ciò fosse vero, non possiamo certo le future investigazioni digitali vadano verso uno scenario costituzionalmente ammissibile.

 

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