Skip to content Skip to sidebar Skip to footer

L’innovazione digitale e il ruolo dei watchdog: la sfida americana.

Segnali contraddittori giungono dagli Stati Uniti. Siamo in “piena turbolenza”, come dicevamo nell’ultimo editoriale di RepMag e non c’è quindi da stupirsi se , anche nel Paese più avanzato nell’uso e nell’innovazione del web, la magistratura vada in una certa direzione mentre gli imprenditori da un’altra.  

Il Watch-Dog della magistratura

È di questi giorni una decisione della Corte di San José, in California (lo Stato dove avvengono i laboratori più innovativi sia in termini tecnologici sia giurisprudenziali), che ha condannato Yahoo per la violazione della normativa sulla privacy. Una vera e propria Class-Action di consumatori stufi di vedersi usare i contenuti delle proprie email da parte del gestore del motore di ricerca. Non si era, infatti, garantito il preventivo consenso degli user all’utilizzo delle loro info private, scambiate sia con altri clienti Yahoo sia con terze parti diverse. Stessa fattispecie capitata nello scorso a marzo a Google, che si salvò dalla condanna impegnandosi ad una pronta ed immediata modifica del proprio sistema di sicurezza/privacy relativo ai suoi user. Il dato complessivo è comunque significativo: i giudici americani sono attenti e solleciti, quando chiamati in causa, nel “tirare le orecchie” ai big players di questo settore, alla continua quasi forsennata ricerca di valorizzazione dei dati e dei contenuti delle info scambiate tra i propri utenti.

È necessario mettere dei limiti alle ricerche sui Social Network?

La recentissima polemica che ha investito Facebook in relazione ad una ricerca effettuata da Jaffrey Hancock, e dal suo team specialistico, su oltre 700.000 user del più importante Social Network del mondo ha aperto un “cantiere” di discussione molto importante e da monitorare con attenzione. Che cosa era successo? In poche parole il team di Hancock, evidentemente su incarico del Board di Facebook, ha, in via del tutto clandestina e silente, preso ed enucleato 700.000 profili, di soggetti come noi, che nella loro pagina, dopo aver raccontato “chi sono”, utilizzano il profilo per postare le loro storie, le loro emozioni, le loro avventure, la loro quotidianità. 

Che cosa ha fatto il team di Hancock? E’ intervenuto sulla timeline (la lista delle notizie che tutti i titolari dei profili Facebook ricevono dai loro amici con gli aggiornamenti di status), alterandola e manipolandola attraverso l’introduzione di una serie di notizie, alternativamente a blocchi di news positive o di news negative, per capire “se” e “in che modo” tali feed influenzassero lo status e le emozioni dello user ricevente. Tutti i soggetti del campione si sono visti quindi, a loro insaputa, ricevere una serie di notizie buone o cattive e hanno istintivamente reagito a seconda del loro stato d’animo. 

Inutile sottolineare la delicatezza e spinosità di tale manipolazione delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti. Su quella strada, senza voler fare a tutti i costi i pessimisti, si potrebbero immaginare percorsi estremamente delicati e pericolosi per tutta l’umanità. 

Venuta fuori la notizie di tale “innovativa” metodologia di ricerche si è scatenato il pandemonio. Facebook ha dovuto giustificare il suo esperimento ma l’onda lunga dei commenti ha fortemente contaminato l’immagine del Social Network anche sui suoi più strenui sostenitori. Ed ecco, quindi, la reazione degli uomini di Zuckerberg: è vero, dobbiamo fare molta attenzione – hanno detto pubblicamente al mercato – a gestire tali tipologie di ricerca e studio. Dobbiamo porci il problema del se e come tale materia non vada regolamentata anche dal punto di vista etico, proprio per evitare che le possibili manipolazioni incidano in maniera distorsiva sul sentire della Gente con la G maiuscola.

Non fermiamo dunque le ricerche sociologiche che sono un po’ il sale dell’innovazione tecnologica, ma apriamo un cantiere di discussione sulle regole del gioco di questa importante ma delicatissima tipologia di studi antropologici.”

La speranza è che questa brillante uscita mediatica degli uomini di Facebook non sia soltanto una difesa contro le vivaci contestazioni sorte dopo il venire alla luce della ricerca del team di Hancock. 

Il tassativo divieto di mischiare in modo equivoco informazioni e pubblicità è ancora un valore condiviso?

Tutta la cultura consolidatasi negli anni sul diritto della pubblicità si basa su un rigoroso principio filosofico ed etico: la netta separazione tra i messaggi che informano e quelli che pubblicizzano un prodotto o un servizio. Tale principio è stato recepito negli ordinamenti ed introdotto per la prima volta in Italia dal Codice di Autodisciplina nell’articolo 7 che vieta proprio la pubblicità clandestina ed impone l’obbligo della chiara, univoca e leale identificazione del messaggio pubblicitario.

In questo quadro, ormai non più contestato ed entrato in tutti sistemi giuridici del mondo, si innesca ora un pericoloso e suggestivo rischio di “baco”. 

Uno dei più brillanti start-up nel mondo di internet è costituito da BuzzFeed, una società sulle prime pagine dei giornali in questi giorni per la sua straordinaria valutazione di mercato intorno agli 850 milioni di dollari come riportato dal New York Times. Che mestiere fa e quali servizi offre BuzzFeed? Usa la tecnologia per elaborare da semplici fatti di cronaca, che derivano dalla realtà quotidiana, delle idee creative che rendano tali notizie “more attrattive for readers”, più affascinanti per i lettori. BuzzFedd, una volta consolidata tale specializzazione (la società è stata costituita nel 2006 e ha impiegato quindi oltre un quinquennio per arrivare alle dimensioni attuali di oltre 500 dipendenti e con una raccolta fondi di oltre 100 milioni di dollari) ha quindi iniziato a prendere contatto con gli inserzionisti di pubblicità “because it creates sponsored stories for their brands”, per ottenere la sponsorizzazione di quelle notizie reali ma rese più sexy dai giornalisti di BuzzFeed. L’operazione è riuscita, tanto che aziende come Pepsi Cola, General Electric e Toyota hanno cominciato a “comprare” l’innovativo story-telling della società di Jonah Peretti, tra l’altro uno dei fondatori di Huffington Post. 

Qual è il problema, neanche poi tanto prospettico? Siamo di fronte ad un caso in cui il famoso principio giuridico, di cui parlavamo all’inizio di questo commento, viene fortemente contaminato per non dire violato. Infatti o BuzzFeed dichiarerà pubblicamente e all’interno dei suoi contenuti che ogni buzz deve considerarsi un messaggio pubblicitario e quindi il lettore/consumatore è avvisato del tipo di news che riceve, oppure la società dovrà individuare due format che permettano una chiara identificazione delle news vere e proprie (che ci sono ed è legittimo che BuzzFeed possa diffondere) e le news sponsorizzate legittimamente dagli inserzionisti. Oggi BuzzFeed presenta un catalogo con tre servizi: news, buzz e life. Le prime che dovrebbero essere puramente notizie non inquinate da messaggi pubblicitari. Le seconde i rumors del mondo della cronaca rosa. Le terze contenenti il glamour delle varie tipologie di lifestyle. 

Forse, per deformazione professionale, siamo portati a intravedere rischi di illeciti anche quando non ci sono: ma in questo caso bisogna alzare la soglia dell’attenzione. Il rischio di pubblicità clandestine che distorcano le scelte di acquisto dei consumatori è alto e deve essere assolutamente reinserito nell’ambito dei principi normativi comunemente condivisi. La campagna acquisti che BuzzFeed sta facendo (ha appena assunto due top journalist americani, Ben Smith, un editorialista politico, e Mark Schoofs, addirittura un premio Pulitzer) fa pensare ad un forte potenziamento della redazione e delle firme più autorevoli esistenti sul mercato. A maggior ragione il Watch-Dog deve funzionare in maniera preventiva ed efficace. 

 

Leave a comment