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L’Italia in Rete: tra diritto fondamentale di accesso ad Internet e divario digitale

In questi anni, sulle colonne di R&P Mag, ci siamo posti spesse volte un punto interrogativo. Ci siamo chiesti, cioè, se la rivoluzione di Internet fosse davvero la rivoluzione del terzo millennio con appresso soltanto effetti positivi per la nostra vita e per la nostra convivenza. I perché di questa domanda sono noti: abbiamo dei seri dubbi che la rivoluzione digitale introdotta da Internet, se non saggiamente gestita, possa portare soltanto virtuosità agli esseri umani. Per questo abbiamo cercato di insinuare dei dubbi nelle certezze del fondamentalismo innovativo; abbiamo cercato di aprire dei cantieri di pensiero sulla necessità di un’educazione digitale soprattutto per le nuove generazioni degli internauti; abbiamo – in altre parole – cercato di dare un contributo…di dubbio laico e proattivo rispetto a delle posizioni politiche e concettuali rigide e apodittiche. Oggi, dopo aver festeggiato le 25 candeline che Tim Berners Lee si merita, riteniamo giusto rifare un po’ la storia di questo primo quarto di secolo di vita di Internet e dei suoi aspetti positivi e negativi.
Il 20 dicembre 2015, celebrando le nozze d’argento della sua creazione, l’inventore di Internet ha manifestato la necessità di rimboccarsi le maniche perché, sebbene la Rete sembri ormai essere parte integrante del quotidiano dei cittadini e il suo sviluppo appaia inarrestabile (ad oggi i siti Internet attivi superano il miliardo), resta ancora molto da fare. Oltre ai bilanci sul passato, operazione tipica al ricorrere di un anniversario, può essere stimolante tentare di individuare quali saranno, plausibilmente, i prossimi sviluppi legati al mondo del Web in Italia.
A sorpresa, una ricerca di Eurostat pubblicata alla fine dello scorso anno colloca il Bel Paese al primo posto nella classifica degli Stati che hanno registrato il maggior numero di nuovi utenti: 1 milione e 800 mila nuovi utilizzatori tra i 16 e i 74 anni si sono avvicinati ad Internet per la prima volta, oltre a 200 mila “nativi digitali” under 16. Se nessuno in Europa ha fatto meglio è anche perché l’Italia partiva da un grado di alfabetizzazione informatica certamente inferiore rispetto ad altri Paesi, e questa è la diretta conseguenza di una politica che non ha fatto abbastanza. Ma paradossalmente questo ritardo accumulato nell’implementazione della Rete potrebbe avere un (non voluto) risvolto positivo. Il digital divide – ossia la disuguaglianza nell’accesso alle nuove tecnologie di comunicazione – non è oggi un’emergenza democratica solo perché, parallelamente alla lentezza dei cittadini nell’approcciare le nuove tecnologie, viaggia l’ancora più marcata lentezza delle istituzioni nell’innovare la pubblica amministrazione: se gli ultimi governi fossero stati più rapidi nella creazione di una vera PA digitale, ci troveremmo di fronte ad un quarto della popolazione incapace di accedere ai servizi di base e, dunque, relegata ai margini della società.
Non è un caso che tra i principi enunciati nella Dichiarazione dei Diritti di Internet figuri l’art. 2, che definisce l’accesso ad Internet come “diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo individuale e sociale”. E della qualità di diritto fondamentale sono convinti anche i promotori del comitato “34-bis” che aspira a sancire a livello costituzionale il diritto di accesso alla Rete e lo speculare compito della Repubblica di promozione delle condizioni che ne rendano effettivo l’esercizio.
L’importanza assunta da Internet non manca, comunque, di attirare qualche critica anche da parte di chi – bisogna precisarlo – grazie alla tecnologia ha costruito una fortuna: Bill Gates ha perentoriamente sostenuto che “le cose importanti della vita sono altre” e “l’idea che molti supermanager delle big company del Web hanno dell’importanza della Rete come ‘priorità’ del mondo non può che essere uno scherzo”. Una visione – forse troppo pessimistica – che potrà comunque essere verificata a breve. Una delle principali caratteristiche della tecnologia è infatti la velocità con cui realizza il futuro ipotetico, ossia la rapidità con cui si passa dal sostenere l’impossibilità di qualcosa alla realizzazione che quel qualcosa non solo è già stato creato, ma ha ormai assunto una diffusione globale (tra le più celebri previsioni azzardate, può ricordarsi Kenneth Olsen, fondatore di Digital Equipment, che nel 1977 ha sentenziato “che bisogno ha una persona di tenersi un computer in casa?”).
Il protagonista del futuro immediato sembra essere l’Internet of Things, paradigma che si basa sulla presenza pervasiva intorno a noi di una varietà di oggetti che, attraverso schemi di indirizzamento unico, sono in grado di interagire tra loro e cooperare con quelli vicini per raggiungere uno scopo specifico. Cooperazione che, va da sé, passa quasi esclusivamente per la Rete. Un mercato che in Italia vale 2 miliardi di euro, che cresce del 30% all’anno e che possiamo individuare grazie all’aggettivo “smart”: lo smart metering si riferisce ai contatori intelligenti che consentono di ridurre i consumi, la smart car è un’auto connessa che consente la registrazione dei parametri di guida con finalità assicurative, la smart home è un’abitazione fornita di vari elettrodomestici connessi e controllabili a distanza. Sempre più oggetti connessi e dunque sempre più dati raccolti, con profonde questioni che coinvolgono la privacy perché oltre al mercato primario – la vendita di dispositivi IoT – si sta sviluppando il (forse più rilevante) mercato secondario della valorizzazione dei dati. Pensiamo al premio di un’assicurazione auto che varia in base ai chilometri percorsi: un potenziale risparmio da un lato, ma il costante monitoraggio della nostra posizione dall’altro.
Oggi la distinzione fondamentale è tra online e offline, ci rendiamo tutti conto delle difficoltà in cui si incorre quando non siamo connessi e non abbiamo accesso ad informazioni che siamo ormai abituati ad avere a portata di mano. Nei prossimi anni questa distinzione è destinata a sparire perché la connettività sarà permanente, e noteremo invece la presenza sempre più diffusa di dispositivi che, comunicando tra loro, ci forniscono dati sempre più dettagliati. Il rischio è che al crescere della tecnologia corrisponda un acuirsi di quel divario digitale che, seppur in calo, continua ad essere tra i più ampi d’europa. Recentemente, ha fatto scalpore il listino della catena Mediaworld che elenca i costi di prestazioni di assistenza ai clienti per eseguire procedure che – quasi a chiunque – sembrano intuitive e semplicissime: applicazione pellicola protettiva €2,99, download di un’app €3,99, prima accensione del telefono €4,99 e così via. Vale la pena chiedersi se non sia necessario che lo Stato predisponga un’assistenza “anti-digital divide”, la cosiddetta educazione digitale, in linea con il testo dell’art. 34-bis che richiede una presenza attiva delle istituzioni pubbliche.
Gli ordinamenti si stanno occupando del digitale, ma limitandosi spesso al complesso tema della regolamentazione della Rete che secondo Stefano Rodotà, lungi dall’essere un luogo vuoto di regole, “è sempre più regolato da Stati invadenti e imprese prepotenti”: da un lato i controlli capillari degli Stati con l’argomento della sicurezza, dall’altro il potere normativo esercitato dalle imprese con le condizioni generali di utilizzo di siti e app, e dunque il risultato di un formulario immenso di disposizioni che guidano l’utente in un universo utopisticamente descritto come neutrale e libero da ingerenze esterne. La storia insegna che la proliferazione di norme vincolanti esige la definizione di principi costituzionali che pongano limiti e creino spazi di libertà. La Dichiarazione dei Diritti di Internet, pur non essendo un testo vincolante, è espressione di un indirizzo politico sempre più solido che, nel futuro prossimo, potrebbe rivelarsi fondamentale.
Alla luce di quanto vi abbiamo socializzato, vi possiamo garantire una cosa, cari lettori affezionati di R&P Mag: che continueremo a svolgere il ruolo di sentinella non solo della libertà per gli internauti ma per i pericoli che una Rete non gestita e non educata può presentare. Non ci stancheremo mai, quindi, di denunciare i rischi, i pericoli, le facili suggestioni che questa straordinaria rivoluzione porta quotidianamente nelle nostre vite. Non per fermare il progresso, ma semplicemente per gestirlo da driver attivi e non da pigri soggetti passivi di un bombardamento spinoso e delicato.

Riccardo Rossotto
Nicola Berardi

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