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Diritto alla privacy ed esercizio di difesa in giudizio

Corte di Cassazione, Sez. III, 3 aprile 2014, n. 7783

ANCORA SUL CONFLITTO FRA TUTELA DELLA PRIVACY ED ESERCIZIO DI DIFESA IN GIUDIZIO: IL FATTO CHE LE INFORMAZIONI PRODOTTE IN GIUDIZIO SI RIFERISCANO A SOGGETTI TERZI NON E’ RILEVANTE AI FINI DI RICHIEDERE IL CONSENSO DEL TITOLARE PER LA PRODUZIONE IN GIUDIZIO, NE’ E’ RICHIESTA ALCUNA ANONIMIZZAZIONE DI TALI DATI, CIO’ PURCHE’ SIANO RISPETTATI I PRINCIPI DI PERTINENZA E NON ECCEDENZA.

 

Con il provvedimento in oggetto, la Suprema Corte cassa e decide nel merito la sentenza del Tribunale di Roma con la quale era stato dichiarato illecito per violazione della legge a tutela dei dati personali la condotta assunta da una Banca in una vicenda giudiziaria.

Nella fattispecie, convenuta in giudizio con ricorso ex art. 700 c.p.c. da un suo dipendente licenziato, sposato, che chiedeva il reintegro nel posto di lavoro, la Banca aveva prodotto in giudizio tramite il suo difensore, le buste paga della moglie del ricorrente, delle quali era in possesso in relazione ad un mutuo precedentemente concesso alla stessa. La produzione aveva lo scopo di smentire quanto il ricorrente affermava circa il “periculum in mora”, adducendo che la sua mancata reintegrazione nel posto di lavoro e la perdita della retribuzione avrebbero arrecato grave danno alla sua famiglia, anche a causa dell’impossibilità di rimborsare le rate di un mutuo contratto dalla moglie nei confronti dell’istituto di credito. 

Con ricorso ex art. 152 del Codice privacy, la moglie del ricorrente aveva poi chiesto la condanna della Banca e del suo difensore, per violazione dell’art. 23 del Codice privacy. per non avere essa autorizzato la produzione in giudizio delle sue buste paga, chiedendo altresì il risarcimento danni.

L’istituto di credito, resistendo alla domanda, aveva invocato l’esimente di cui all’art. 24 del Codice privacy che, come noto, autorizza l’uso dei documenti riservati per esigenze di difesa in giudizio. Il giudice del merito aveva accolto la domanda attrice quanto all’accertamento della illiceità del comportamento della banca respingendo tuttavia la richiesta risarcitoria. In applicazione degli enunciati principi, la Corte ha accolto il ricorso della banca, e, cassata la pronuncia impugnata, lo ha deciso nel merito rigettando la domanda proposta da Caia.

La Corte ha ritenuto che sussistessero i presupposti di applicabilità dell’art. 24 del Codice Privacy e il rispetto dei principi di pertinenza e non eccedenza del trattamento dei dati della moglie del ricorrente in quanto: (i) la situazione patrimoniale della stessa costituiva oggetto di accertamento giudiziale dal momento che il marito aveva fatto valere, a propria difesa, gli interessi del nucleo familiare e quindi anche quelli della moglie; (ii) la banca dunque correttamente aveva prodotto in giudizio la busta paga della moglie del ricorrente al fine di far valere la propria tesi difensiva volta a smentire quanto il ricorrente affermava circa il periculum in mora; (iii) il trattamento in ogni caso era avvenuto in relazione ad un soggetto che era già a conoscenza dei dati oggetto di produzione in giudizio per avere egli stesso di essi fatto specifico argomento di difesa.

La decisione della Suprema Corte ha ribadito il principio che l’art. 24 del Codice “premette di prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati sia necessario per far valere o difendere un diritto in giudizio, pur se tali dati non riguardino una parte del giudizio in cui la produzione viene eseguita … Unica condizione richiesta è che la produzione sia pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità; che sia cioè utilizzata esclusivamente nei limiti di quanto necessario al legittimo ed equilibrato esercizio della propria difesa …”

Sulla base dei suddetti principi di pertinenza, la Corte ha altresì ritenuto che alcuna censura poteva essere mossa alla Banca che aveva prodotto la busta paga della moglie del ricorrente senza “anonimizzare” i dati ad essa riferibili; l’anonimato infatti avrebbe privato la difesa della Banca di ogni utilità “essendo in discussione le condizioni economiche del C e della sua famiglia, non quelle di un personaggio ignoto”

Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato

App free: dopo la Commissione UE, anche la Autorità italiana indaga sui programmi e giochi che all’apparenza non costano nulla, ma che chiedono aggiornamenti a pagamento per poter andare avanti.

In data 16 maggio 2014, l’Autorità ha comunicato di avere avviato un procedimento ai sensi dell’art. 27, comma 3 del Codice del Consumo nonché ai sensi dell’art. 6 del “Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, pratiche commerciali scorrette, clausole vessatorie” e contestuale richiesta di informazioni, nei confronti di Google, Google Payment, Amazon, iTunes e Gameloft, società che realizza videogiochi scaricabili da internet.

http://www.agcm.it/trasp-statistiche/doc_download/4239-ps8754com.html

 

Sono finite nel mirino dell’Autorità le cosiddette “app free to play” già oggetto di attenzione della Commissione UE proprio per la definizione ritenuta “ingannevole”.. Si tratta di videogiochi il cui download sui terminali mobili è gratuito, ma che poi richiedono acquisti per proseguire ai livelli successivi, i cosiddetti “acquisti in app”. 

Il gioco prodotto da Gameloft, ispirato ad una serie animata televisiva, è incentrato sulla figura di  una bambina che vive in un appartamento posto sopra un negozio di animali e che scopre di avere la possibilità di comunicare con gli ospiti del “pet shop”. Il gioco propone, quindi, lo svolgimento di diverse attività a favore e/o con gli animali, quali l’acquisto di nuovi oggetti o accessori utili per la cura, l’alimentazione, il gioco, il trasporto degli animali, ecc. A tal fine, il giocatore deve acquisire crediti e ciò può fare previo pagamento di un corrispettivo in denaro (sugli store gestiti da Apple, Google, Amazon), ovvero mediante la prestazione del consenso a visualizzare un video pubblicitario di un altro gioco prodotto dalla Gameloft e, ancora, il coinvolgimento di altri soggetti nel gioco attraverso social network.

Proprio questi “in app purchase” (acquisiti interni all’applicazione) hanno spinto l’Autorità italiana ad avviare il procedimento in esame con il quale – si legge nel comunicato – verrà verificato se i comportamenti posti in essere dalle varie società coinvolte nell’operazione di produzione e distribuzione dell’app di Gameloft costituiscano pratiche commerciali scorrette. In particolare gli atti posti in essere dalle società indicate, potrebbero integrare distinte pratiche commerciali scorrette, quali: (i) la diffusione di informazioni ingannevoli e/o non complete idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico dei consumatori; (ii) la presentazione al consumatore non comprensibile e/o ambigua di aspetti rilevanti del gioco, quali appunto gli acquisiti interni allo stesso, e degli strumenti per limitare o escludere la possibilità degli acquisti all’interno dell’App (iii) la presenza, all’interno del gioco, di inviti all’acquisto rivolti ai bambini. 

I dubbi del Garante potrebbero essere fondati, qualora venga effettivamente accertato che l’acquisto all’interno dell’App sia obbligatorio nel senso che al giocatore sia precluso di giocare in assenza di acquisti; diversamente sarebbe qualora, invece, gli acquisti consentano al giocatore di passare più velocemente ai diversi livelli di gioco, essendo consentito a tutti i giocatori di usare gratuitamente l’App senza alcune restrizione.

 

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