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Web e Codice Deontologico: una difficile convivenza

Il possibile impatto dell’articolo 35 del nuovo codice deontologico approvato dal Consiglio Nazionale Forense nel gennaio di quest’anno è stato recentemente preso in considerazione dall’AIGA (Associazione Italiana Giovani Avvocati) in prossimità della sua entrata in vigore (15 dicembre 2014). Nel comunicato stampa la presidente dell’associazione Nicoletta Giorgi definisce tale articolo «un vero bavaglio con restrizioni anacronistiche che pongono la nostra categoria in una condizione di disparità e svantaggio».

Anche se la gran parte dei principi espressi dal nuovo articolo 35, sono già presenti negli articoli 17 e 17-bis dell’attuale versione del codice deontologico forense, non si può non guardare con un certo rammarico come si sia persa l’ennesima occasione per avviare la professione forense ad un utilizzo etico e deontologico degli strumenti e delle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie.

Entrando nel vivo del testo del nuovo articolo 35, il comma 9° testualmente cita: “L’avvocato può utilizzare, a fini informativi, esclusivamente i siti web con domini propri senza reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipi, previa comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto del sito stesso”.

Le perplessità discendono dall’obbligo esclusivo di utilizzare siti web con domini propri. Un’interpretazione letterale di questo articolo genera due possibili conseguenze: all’avvocato o allo Studio Legale dovrebbero essere vietati l’uso di social network quale Linkedin e Facebook o di portali quali “paginegialle.it” o “sostituzionilegali.it” che indicizzano i vari studi legali consentendo agli stessi una promozione dei propri servizi.

È doveroso l’uso del condizionale rispetto alle possibili conseguenze sanzionatorie di tale divieto, in quanto la totale assenza di provvedimenti disciplinari nei confronti della potenziale moltitudine di avvocati “trasgressori” in possesso di un profilo linkedin fa supporre che il buon senso abbia prevalso sulla rigida interpretazione del codice deontologico, magari attraverso la creazione di una distinzione, a onor del vero più formale che sostanziale, tra il concetto di sito web e quello di social network. 

Altrettanto problematico è il contenuto del comma 10 dell’articolo 35 secondo il quale “l’avvocato è responsabile del contenuto e della sicurezza del proprio sito, che non può contenere  riferimenti  commerciali o pubblicitari sia mediante l’indicazione diretta che mediante strumenti di collegamento interni o esterni al sito”.

In questo caso, emergono due profili che devono essere valutati distintamente. Il primo riguarda la sicurezza del contenuto del proprio sito web. Tale obbligo, assente nella precedente versione del codice deontologico forense, è più che mai attuale e condivisibile. È sempre più frequente la prassi di numerosi studi professionali di rendere disponibili all’interno del proprio sito web informazioni relative alle pratiche dei propri clienti in modo da consentire agli stessi di poterle monitorare in tempo reale senza dover contattare direttamente il cliente. 

Se da un lato questo servizio, è di particolare utilità nei confronti del cliente, non si può negare che vi siano dei forti margini di rischio nel momento stesso in cui l’avvocato titolare del sito web non abbia adeguatamente investito nella protezione di tali dati, ad esempio, decidendo di utilizzare un servizio di hosting del proprio sito web a basso costo.

Il secondo profilo riguarda il divieto di riferimenti commerciali o pubblicitari al proprio sito web sia mediante l’indicazione diretta che mediante strumenti di collegamento interni o esterni. In sostanza, tale disposizione vieta la possibilità per gli avvocati di promuoversi attraverso strumenti pubblicitari quali AdWords di Google o servizi affini. Su questo punto, l’Associazione Italiana Giovani Avvocati, come anticipato, ha avuto una reazione molto decisa e severa parlando addirittura di un’evidente disparità di trattamento rispetto ai tradizionali servizi offerti nel settore della stampa tradizionale. Effettivamente, si fa un po’ di fatica a cogliere la differenza tra una pubblicità on line e una pubblicità su un quotidiano nazionale, se non per il fatto che la seconda ha un costo più elevato e non sempre riesce ad avere un impatto mirato sul tipo di clientela che si desidera raggiungere. 

Al di là delle legittime critiche al codice deontologico di prossima applicazione, non si può, in conclusione, non cogliere come l’utilizzo massivo della Rete per promuovere servizi legali può generare un’entropia informativa su cui è necessaria una riflessione ben più ampia. Oggi la Rete (rectius Google) è una miniera sterminata di informazioni di natura legale, ma non sempre ci sono gli strumenti per comprendere il contesto di riferimento e soprattutto la qualità della fonte da cui proviene tale informazione. 

Sotto questo profilo, un Consiglio Nazionale Forense “illuminato” ha molto lavoro da fare: è sicuramente prioritario evitare che tale entropia informativa di natura legale impedisca al cittadino o all’impresa una corretta analisi della problematica legale e la conseguente scelta del professionista competente nel settore di riferimento. 

È quindi auspicabile che si proceda speditamente in questa direzione attraverso la certificazione delle informazioni legali presenti on line e la creazione di regole che consentano di determinare i limiti e le modalità con cui il professionista può promuovere i suoi servizi legali, evitando al contempo divieti censori e di difficile applicazione che non possono che apparire come assolutamente anacronistici nell’era dei Big Data. 

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