Il Codice etico è una comunicazione pubblicitaria?

L’art. 2, primo comma, lett. a) del Decreto legislativo del 02/08/2007 n. 145 definisce “pubblicità: qualsiasi forma di messaggio che è diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi”.
Ugualmente le norme preliminari del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale definiscono la “comunicazione commerciale” come comprensiva della pubblicità e di “ogni altra forma di comunicazione, anche istituzionale, diretta a promuovere la vendita di beni o servizi quali che siano le modalità utilizzate, nonché le forme di comunicazione disciplinate dal titolo VI” (comunicazione sociale).
L’ampiezza di tali definizioni ci ha portati a valutare la conformità alle norme che regolano la pubblicità delle più svariate forme di comunicazione, dal marchio, alle televendite, alle scritte apposte sulla confezione o sul prodotto, alla pubblicità istituzionale, oltrechè ovviamente alle forme più classiche di comunicazione attraverso i media tradizionali, il sito internet aziendale ed i canali social.
Con un’interessante decisione del 29 luglio 2025 l’AGCM ci fa riflettere sul fatto che anche quanto veicolato in termini di responsabilità sociale, dichiarazioni valoriali e ambientali in un Codice etico sia, in tutto e per tutto, equiparabile ad una comunicazione commerciale rivolta ai consumatori.
Si tratta di un approccio ben diverso da quello che normalmente ispira il professionista (società, imprenditore individuale, studio professionale associato, etc) che si accinga ad approvare un Codice etico.
Da un lato, infatti, il professionista tende spesso a considerare tali dichiarazioni come espressioni generiche o di adesione astratta a principi etici universalmente condivisi o, nella peggiore delle ipotesi, l’espressione di un obiettivo che ci si propone di raggiungere nel futuro.
Dall’altro lato, il suo punto di vista non è rivolto ai consumatori, bensì ai fornitori, consulenti, partner delle iniziative commerciali a cui si richiede, anche in ottica di loro selezione, di aderire alle proprie scelte valoriali come condizione per poter cooperare.
Od ancora, lo sguardo è rivolto agli stakeholder istituzionali (istituti di ricerca, università, Ong, etc) in un’ottica di trasparenza delle iniziative di sostenibilità assunte dall’impresa. Con ciò, forse, dimenticando che sempre più il consumatore/cliente (che come osservato dall’AGCM nella decisione richiamata è, a sua volta, uno degli stakeholder), effettua le proprie scelte di acquisto orientandosi non solo sulla base della convenienza e/o qualità dei servizi offerti, bensì anche sulla base di una condivisione valoriale correlata a profili etici, di sostenibilità e di inclusività e non discriminazione “fotografati” proprio dalle dichiarazioni contenute nel Codice etico (o nel bilancio di sostenibilità).
Gli Orientamenti della Commissione europea del 2021 sull’interpretazione ed applicazione della Direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali hanno evidenziato come le dichiarazioni etiche e relative alla responsabilità sociale delle imprese “sono diventate uno strumento di marketing utilizzato per rispondere alle crescenti aspettative dei consumatori, riguardo al rispetto, da parte dei professionisti, delle norme etiche e sociali”.
Ed allora, come non si veicola una pubblicità se non si può provare la veridicità di quanto si promette al pubblico di riferimento e se non si hanno a disposizione, prima di veicolarla, le prove documentali di tale veridicità, non si può ugualmente pubblicare sul proprio sito internet o, comunque, veicolare al pubblico i contenuti del proprio Codice etico se non si dispone di una prova rigorosa della veridicità delle dichiarazioni di responsabilità etica e sociale ivi contenute e se non si è implementato un sistema rigoroso di controlli e di audit periodici volti ad assicurare al pubblico che quanto ivi affermato rimanga vero anche nel tempo.
Non farlo espone certo al rischio di incorrere nelle onerose sanzioni amministrative dell’AGCM, ma mette, altresì, a rischio la reputazione aziendale, vanificando gli ingenti investimenti effettuati ed espone il professionista all’azione dei concorrenti (trattandosi di atti concorrenzialmente illeciti).
Né si può perimetrare tale rischio scegliendo di limitarsi a dichiarazioni di responsabilità sociale e dichiarazioni etiche generiche posto che, come osservato dall’AGCM nella decisione sopra richiamata anche esse “possono essere considerate ingannevoli all’interno di una strategia di comunicazione rivolta anche ai consumatori, in quanto tali dichiarazioni non solo devono essere veritiere e non contenere informazioni false ma devono anche “essere presentate in modo chiaro, specifico, accurato e inequivocabile in modo da non trarre in inganno i consumatori”.
