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Licenziamento del Dirigente: termini di impugnativa solo per “nullità”

Con sentenza n. 395 del 13 gennaio 2020, la Sezione Lavoro della Cassazione interviene sull’applicazione dell’art. 32, comma 2, L. 183/2010 nel caso di licenziamento del Dirigente, chiarendo il perimetro dell’estensione dei termini di impugnativa “a tutti i casi di invalidità del licenziamento”.

A tal fine, ripercorre per tappe l’evoluzione normativa in tema.

Il testo originario dell’art. 6 della L. 604/1966 prevedeva che il licenziamento dovesse essere impugnato, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione.

Tale regime era pacificamente ritenuto inapplicabile ai dirigenti in quanto si trattava di categoria di prestatori sottratta alle norme limitative dei licenziamenti individuali per espressa previsione della medesima normativa (art. 10).

Con l’introduzione dell’art. 32 della L. 183/2010, il Legislatore ha sostituito l’art. 6 della L. 604/1966, ribadendo, da un lato, il termine di 60 giorni per l’impugnativa stragiudiziale del licenziamento e, dall’altro lato, introducendo un ulteriore termine di 180 giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale, pena l’inefficacia dell’impugnativa stessa.

 

Il comma 2 dell’art. 32 citato, inoltre, ha previsto l’estensione dei termini in questione “a tutti i casi di invalidità” del licenziamento.

La L. 92/2012 ha modificato la formulazione dell’art. 18 della L. 300/1970 apprestando, al primo comma, per la prima volta una tutela piena ai dirigenti per le ipotesi, anche ad essi applicabili, di nullità del licenziamento perché

  • discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108;
  • intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198;
  • in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni;
  • riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge;
  • determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile.

Ritiene quindi la Corte che “solo con tale normativa [ndr. L. 92/2012] l’espressione “anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento, riferita alla disciplina della decadenza, possa essere riempita di significato anche per la categoria dei dirigenti”.

Solo con la Legge Fornero si sono quindi previste ipotesi di nullità dei licenziamenti (esterne alle ipotesi di invalidità di cui al testo originale della L. 604/1966) cui consegue di diritto la tutela reintegratoria anche per i dirigenti.

A solo questa categoria giuridica di “invalidità”, si deve quindi ritenere estendibile il regime decadenziale di cui all’art. 32, comma 2, L. 182/2010.

Tale regime, si ribadisce, risulta intimamente connesso al significato che si attribuisce al termine “invalidità”.

E la Corte è chiara nel ritenere che in tale concetto, nel rispetto altresì dei canoni interpretativi di cui all’art. 12 delle preleggi, non possono rientrare ipotesi di “illegittimità” non potendo pervenire ad un ampliamento della portata oggettiva della norma in esame tale da includervi ogni ipotesi patologica del licenziamento.

Nel concetto di invalidità non può, pertanto, ricondursi l’ipotesi della “ingiustificatezza” di fonte convenzionale cui consegue la tutela meramente risarcitoria dell’indennità supplementare.

In conclusione, i termini di impugnativa del licenziamento e deposito del ricorso di cui alla L. 604/1966 (a pena, rispettivamente, di decadenza e inefficacia) si applicano, ai sensi dell’art. 32, comma 2, L. 183/2010, con riferimento ai dirigenti, alle sole ipotesi di stretta invalidità (rectius, nullità) menzionate dall’art. 18, comma 1, L. 300/1970, come modificato dall’art. 42 della L. 92/2012.

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