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Infortuni sul lavoro e d. lgs. 231/2001: la Cassazione delinea i confini della responsabilità di datori ed enti

Nel trattare la vicenda processuale relativa a un infortunio mortale occorso a un lavoratore mentre svolgeva attività di taglio piante (Sentenza n. 51455 depositata il 28 dicembre 2023: clicca qui per scaricare la sentenza) la Cassazione ha contribuito a delineare i confini della responsabilità del datore di lavoro in materia di infortuni sul lavoro e ribadire i criteri per affermare la responsabilità amministrativa degli enti in relazione alla legge 231.

I Giudici di primo e secondo grado avevano condannato il datore di lavoro della società per il reato di omicidio colposo per non aver curato l’organizzazione della sicurezza e per aver omesso di effettuare controlli circa il rispetto della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in assenza di una delega di funzioni.

I Giudici avevano altresì ritenuto la società responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies D. Lgs. 231/2001 perché, pur avendo adottato i documenti previsti per la prevenzione dei rischi ed indicato i soggetti responsabili della loro attuazione, in concreto aveva adottato “una struttura gestionale ed organizzativa inadeguata rispetto agli obiettivi” previsti dai predetti documenti.

La Suprema Corte di Cassazione si è tuttavia discostata da tali pronunce, annullando con rinvio la sentenza impugnata dai ricorrenti, ovvero dal datore di lavoro e dalla medesima società.

In particolare, con riferimento alla posizione del datore di lavoro, la Corte di Cassazione ha sottolineato che a tale soggetto è richiesto un dovere di vigilanza, ma che tuttavia le modalità attraverso cui il datore di lavoro deve adempiere a tale dovere non sono esplicitamente definite dal legislatore.

Ad ogni modo, secondo la Corte di Cassazione, in presenza di un valido atto di delega di funzioni, tale obbligo non impone al datore di lavoro un controllo costante delle attività. Tanto è vero che l’art. 16, comma 3 del D. Lgs. 81/08 prevede che l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro “delegante” sia assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di organizzazione e gestione previsto dall’art. 30, comma 4, D. Lgs. 81/08, ovvero attraverso l’adozione di misure procedurali.

Diversamente, invece, si atteggerebbe l’obbligo di vigilanza e controllo del datore di lavoro in assenza di una delega di funzioni. In questa ipotesi, tuttavia, qualora le dimensioni dell’azienda lo consentano, l’adempimento del datore di lavoro all’obbligo di vigilanza e controllo potrebbe essere desunto ad esempio dall’adozione di procedure, report o controlli a campione e dall’affidamento di incarichi (dirigenziali).

Svolte tali premesse, la Suprema Corte ha precisato che, in caso di insorgenza di prassi non corrette, non sia ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell’esigibilità del comportamento dovuto omesso, laddove non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza, di tali prassi e che il datore di lavoro possa assolvere validamente all’obbligo di vigilare sull’osservanza delle misure di prevenzione adottate, “attraverso la preposizione di soggetti a ciò deputati e la previsione di procedure che assicurino la conoscenza da parte sua delle attività lavorative effettivamente compiute e delle loro concrete modalità esecutive, in modo da garantire la persistente efficacia delle misure di prevenzione scelte a seguito della valutazione dei rischi”.

In merito, invece, alla responsabilità amministrativa della persona giuridica, la Cassazione ha ricordato che l’illecito dell’ente è costituto da una fattispecie complessa, della quale gli elementi essenziali sono il reato presupposto e la colpa di organizzazione.

Quest’ultima, in particolare, è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente all’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati idonei a fondare la responsabilità dell’ente collettivo e consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le necessarie misure volte a contrastarli, ovvero il modello organizzativo.

Tuttavia, la colpa organizzativa, intesa quale violazione di regole cautelari, comporta che la mancata adozione ed inefficace attuazione dei modelli di organizzazione previsti dal D. Lgs. 231/2001 e dall’art. 30 D. Lgs. 81/08 “non è un elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente, ma una circostanza atta (…) a dimostrare che sussiste la colpa organizzativa”. Da ciò deriva che il verificarsi dell’evento non implica ex se l’inidoneità o l’inefficace attuazione del modello organizzativo adottato dall’ente e che pertanto la responsabilità dell’ente non possa derivarsi, in automatico, dalla commissione dell’illecito.

In definitiva, secondo la Suprema Corte “edificare la responsabilità dell’ente su condotte che sono riferibili, in astratto prima ancora che in concreto, esclusivamente alla persona fisica rappresenta un errore giuridico”.

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