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La Corte di Giustizia definisce il perimetro dell’uso del marchio nel commercio da parte del privato che non eserciti ...

Con sentenza del 30/04/2020 (causa C-772/18), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta su quattro questioni pregiudiziali con le quali il giudice del rinvio finlandese ha chiesto di chiarire se costituisca un “uso del marchio nel commercio” quello di un soggetto che – pur non esercitando un’attività commerciale a titolo professionale – riceva, immetta in libera pratica in uno Stato membro e conservi prodotti manifestamente non destinati all’uso privato, spediti al suo indirizzo da un Paese terzo e sui quali, senza il consenso del titolare, sia apposto un marchio.

Il caso riguarda una persona fisica che, ricevuta per conto terzi una spedizione di 710kg di cuscinetti a sfera ad uso industriale sui quali era apposto un marchio registrato altrui, aveva espletato lo sdoganamento e consegnato la merce al proprio mandante in cambio di una stecca di sigarette e una bottiglia di cognac. Assolto in sede penale dall’accusa di contraffazione, era stato tuttavia condannato al risarcimento del danno nonché all’inibitoria da ulteriori violazioni del marchio in questione.

In sede di impugnazione, la Corte d’Appello aveva invece ritenuto che non ci fosse stato un uso del marchio nel commercio poiché la remunerazione ricevuta dall’interessato non si fondava sullo sfruttamento economico di merci nell’ambito di un’attività commerciale, ma costituiva soltanto il corrispettivo del deposito di merci per conto terzi. Annullata la sentenza di primo grado, il procedimento era proseguito dinanzi alla Corte Suprema che aveva sollevato questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia UE.

Dopo aver ricordato che l’espressione “usare nel commercio” implica che “i diritti esclusivi conferiti da un marchio possono essere fatti valere dal titolare di tale marchio solo nei confronti degli operatori economici e, di conseguenza, solo nel contesto di un’attività commerciale”, la Corte ha rilevato che laddove “le operazioni effettuate superino, per il loro volume, per la loro frequenza o altre caratteristiche, la sfera di un’attività privata, colui che le compie si colloca nell’ambito del commercio” (ad esempio, operazioni di sdoganamento su 710kg di cuscinetti a sfera destinati all’industria pesante).

Inoltre, “per quanto attiene alla questione se si possa ritenere che l’interessato abbia esso stesso usato un segno identico a un marchio, sebbene agisse nell’interesse economico di un terzo, si deve rilevare che per l’accertamento di un uso nel commercio, la proprietà dei prodotti sui cui è stato apposto il marchio è irrilevante. La Corte ha infatti giudicato che la circostanza che un operatore utilizzi un segno corrispondente a un marchio per prodotti che non gli appartengono, nel senso che egli non dispone di alcun titolo su di essi, di per sé non impedisce che detto uso rientri nell’ambito” dell’illecito, posto che la sola circostanza che il soggetto abbia “importato e immesso in libera pratica siffatti prodotti è sufficiente per constatare che esso ha agito nel commercio senza che sia necessario esaminare il trattamento successivo di tali prodotti”.

Da ultimo, è stata ritenuta irrilevante la remunerazione ricevuta dall’importatore come corrispettivo per la sua attività (una stecca di sigarette e un superalcolico).

Sulla base di quanto rilevato, la Corte di Giustizia UE ha concluso che “allorché un soggetto che non esercita un’attività commerciale a titolo professionale riceve, immette in libera pratica in uno Stato membro e conserva prodotti manifestamente non destinati all’uso privato, che sono stati spediti al suo indirizzo da un paese terzo e sui quali, senza il consenso del titolare, è apposto un marchio, si deve ritenere che tale soggetto usi il marchio nel commercio”.

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